La stazione ferroviaria

Cartellonistica realizzata ad opera del G.A.S.M.A (Gruppo archeologico storico mineralogico aronese) e del Lions Clubs International ARONA STRESA LIONS CLUB - approfondimento

UNA STAZIONE ART NOUVEAU

Quando l’Orient Express passava per Arona

a cura di Silvia Gadina

Se pensiamo ai monumenti storici di Arona la mente corre subito alle belle chiese, all’imponenza della Rocca e da non molto tempo anche alle antiche mura che sono state riscoperte. Ma anche le strutture architettoniche più “recenti” hanno la loro storia da raccontare: è il caso della stazione ferroviaria.

Una prima stazione, aperta il 14 giugno 1855, era posta in riva al lago ed era utilizzata per il trasporto delle merci dai carri ferroviari alle barche e alle chiatte in quanto capolinea della linea Alessandria – Novara. Qualcuno sicuramente ricorderà i binari e la vecchia locomotiva a vapore ancora visibili nella zona dei giardinetti fino a qualche decennio fa.

Proprio negli anni a cavallo del secolo si sviluppa l’idea di una linea ferroviaria transitabile attraverso il Sempione per la necessità commerciale di collegare il porto di Genova con l’Europa centro-occidentale. Finalmente il 12 giugno 1857 una legge del Parlamento Subalpino concede alla Società dell’ingegner Lavallette la costruzione di una linea ferroviaria nell’alto Novarese sotto il nome di Societé de la ligne d’Italie par le Simplon. I tempi si allungarono considerevolmente a causa del fallimento della società che doveva completare la linea entro il 1862, ma l’opera aronese venne comunque portata avanti e dopo l’unità d’Italia, nel 1868, vi transitava anche la linea Rho – Gallarate che collegava il Lago Maggiore con l’Altomilanese e con Milano (1881), iniziando a suscitare interesse anche verso il turismo lacustre da parte di imprenditori e nobili lombardi.

Il 16 gennaio 1905 finalmente venne attivata la linea progettata per il collegamento del traforo del Sempione, da Arona a Domodossola. La vecchia stazione per dimensioni e posizionamento risultò inadatta al transito della nuova linea, per cui venne costruita in rilevato quella che è la stazione odierna, più a sud, su griglie di robusti pali di legno – palafitte – che garantiscono tutt’oggi la stabilità del terreno acquitrinoso esteso dal Ponte di Ferro e da via Milano fino alla sponda lacuale. Nel 1906, alla nuova stazione arrivò la linea da Santhià e Borgomanero. Venne inoltre mantenuto un binario di raccordo con l’originario scalo a lago. Il complesso della vecchia stazione invece divenne poi sede della Pretura, delle Poste, ecc ed è ricordato dai vecchi aronesi con il nome di “Bindellina”.
Della costruzione della moderna stazione venne incaricato l’architetto Luigi Boffi, a cui non solo si deve la realizzazione della stazione di Arona ma di tutte le stazioni delle linee Arona – Domodossola e Domodossola – Iselle, oltre a diverse ville signorili del lago: Villa Lessa a Cannobio, Villa Luoni e la Teresita a Stresa, Villa Gorla-Cattaneo a Gignese, a Ghiffa Villa Pozza (oggi Zoia), Villa Louise e la Serenità, e in località Alpino la Villa dell’Orto.

Deve il suo meraviglioso stile Art Nouveau (o stile Liberty, presente sul lago non solo nelle stazioni ma anche negli attracchi della Navigazione) anche alla necessità di rendere parte delle stazioni del Sempione adatte al passaggio di uno dei più rinomati mezzi di trasporto dell’epoca, nientemeno che l’Orient Express. Il lussuoso treno messo in servizio fin dal 1883 dalla Compagnie Internationale des Wagons-Lits poté passare attraverso l’Italia solo dal 1919 con l’apertura del tunnel del Sempione. La prima tratta, con partenza da Londra, arrivava sino a Losanna. Da Losanna proseguiva proprio per Arona, da Arona a Ljubljana, da Ljubljana a Dragoman e infine da Dragoman concludeva il suo viaggio a Istanbul. Il fatto che la stazione di Arona fosse divenuta una tappa obbligata sulla linea Londra – Parigi – Milano – Venezia diede il definitivo impulso al moderno movimento turistico aronese (basti pensare all’apertura, proprio lungo il viale della stazione, di due alberghi: l’Hotel Simplon d’Italie prima e poi l’Hotel Simplon de la Gare, attuale Hotel Atlantic).

La fioritura dell’Art Nouveau si ha tra gli ultimi venticinque anni dell’Ottocento e nel periodo che precede lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Le arti figurative si mescolano con l’architettura in una composizione dinamica ed estremamente ornamentale. Sulle sponde del lago l’Art Nouveau arriva proprio grazie alla spinta del turismo d’élite e caratterizza il nuovo sistema di trasporti in un connubio ben riconoscibile tra eleganza e modernità. Nella stazione di Arona questo stile si evidenzia negli eleganti dettagli delle pensiline in ferro battuto, considerate capolavori artistici del Liberty, e nel raffinato uso del materiale litico, che impreziosisce porte e finestre con cornici ed architravi scolpiti in granito rosa di Baveno e nei caratteristici disegni dei cementi, dettagli architettonici che raccontano ancora dei fasti della Belle Epoque.

Il fabbricato viaggiatori si compone di tre livelli di cui soltanto il piano terra è aperto al pubblico. I binari preposti per l’imbarco passeggeri sono dotati di marciapiedi provvisti di banchina riparati dalla lunga e caratteristica pensilina. Dei quindici binari totali, gli ultimi quattro sono utilizzati per la sosta dei treni merci. I binari sono collegati fra loro da un sottopassaggio e da un corridoio sotterraneo un tempo utilizzato per l’inoltro di bagagli, che venivano caricati sui convogli attraverso un sistema di ascensori montacarichi ora in disuso, ed i cui ambienti sono stati convertiti in magazzini e depositi. In direzione di Santhià/Novara esisteva, fino alla Seconda Guerra Mondiale, il Deposito Locomotive a quel tempo in uso come Centro sussidiario di trazione del Deposito Locomotive di Milano Centrale. Sempre del medesimo periodo rimane anche un cartello che indicava l’ingresso al tunnel sfruttato come rifugio dagli attacchi aerei.

La vita della nostra bella stazione prosegue più o meno invariata dagli anni del dopoguerra ad oggi, sempre importante biglietto da visita della città e di sovente immortalata anche nelle cartoline degli anni ’50/’60. Una struttura poco compresa e non propriamente inserita tra le opere d’arte di Arona e quindi poco valorizzata, che andrebbe riportata allo splendore di un tempo anche per incentivare il turismo ferroviario slow, appoggiandosi alle linee locali per godersi le bellezze del Lago Maggiore.

 

GALLERIA FOTOGRAFICA:

Foto d'epoca della stazione di Arona

Foto d’epoca della Stazione di Arona

Locandina che pubblicizza l'Orient Express

Locandina che pubblicizza l’Orient Express

Accesso al binario 1

Accesso al binario 1


L’architetto Luigi Boffi e le stazioni ferroviarie del Sempione

LUIGI BOFFI ARCHITETTO

La figura di Luigi Boffi (Monello di Binago 1846 – Milano 1904) è stata oggetto negli ultimi anni di alcuni approfondimenti monografici; sulla scorta di un arricchimento documentato del corpus delle opere è stato possibile avanzare un’analisi critica in grado d’integrare le esigue, ma intense pagine critiche a lui coeve. La precisazione dei contorni della sua attività nel quadro della cultura architettonica milanese tra ‘800 e ‘900, materia per una storiografia dagli strumenti più rigorosi, ha consentito di superare agevolmente il giudizio con cui Paolo Favole nel 1969 chiudeva la voce del Dizionario Biografico degli Italiani: «figura secondaria di uno dei periodi meno felici della nostra storia dell’architettura, è oggi completamente dimenticato dagli studiosi».

Grazie ad un’impronta stilistica personale, perfezionata col cimento in due settori privilegiati della gamma progettuale, la villa sul lago e i monumenti celebrativi, è stato possibile qualificare il suo apporto nell’ambito di quel professionismo di qualità, incerto stilisticamente, ma non nella prassi quotidiana del costruire, entro il quale si raccolgono le numerose figure di tecnici operanti nella costruzione dell’Italia post-unitaria.

I principi del suo operato, sempre decifrabili nonostante la veste estrosa di molte costruzioni, risultarono tuttavia più sfumati nel passaggio al campo delle stazioni ferroviarie, dove più serrato fu il confronto con una realtà progettuale articolata e complessa. Le stazioni del Sempione costituirono il lievito di un’intensa maturazione professionale, ma l’esito fu per certi versi inferiore alle aspettative, soprattutto se confrontato con le opere-manifesto della gioventù, tanto che se ne rintracciano solo pochi cenni nelle principali pagine biografiche dedicatigli dopo la morte, nella letteratura di settore ferroviario e negli innumerevoli reportage che seguirono la costruzione della linea e del traforo.

1866-1878. Formazione

I genitori di Luigi Boffi, Andrea e Carolina Canziani, erano d’origine contadina; entro un contesto provinciale, quindi, limitato al raggio dell’area tra Comasco e Varesotto, maturarono le condizioni per una probabile iscrizione ad una scuola locale di disegno, nel solco di quella tradizione, oramai consolidata, d’istituti per l’avviamento professionale in grado di soppiantare modelli d’economia e lavoro radicati da secoli. La particolare attitudine dimostrata nel disegno (lodi sulle doti grafiche costituirono il motivo dominante di tutta una carriera) resero indispensabile un ulteriore approfondimento formativo, a Milano.

Il perfezionamento fu economicamente agevolato dalla vittoria di alcune borse di studio. Iscritto ai corsi dell’accademia di Brera dall’annata 1866-67, ottenne riconoscimenti tra i più prestigiosi per giovani diplomati: il pensionato del legato Oggioni e il premio Vittadini. Gli fu possibile in tal modo acquisire una posizione di risalto nella cerchia di allievi di Camillo Boito.

L’iter formativo si collocava con scelte precise nell’ambito di un momento decisivo per la definizione del piano di studi necessario per accedere alla professione. Il titolo accademico, infatti, era sufficiente per un’idoneità limitata al disegno architettonico, non per un’abilitazione piena al progetto esecutivo; di contro, la “concorrenza” della sezione architetti civili, istituita dal 1865 presso l’Istituto Tecnico Superiore (poi Politecnico), consentiva l’inserimento di nuove figure con maggiori competenze tecniche, anche se la sovrapposizione tra vecchie e nuove istituzioni avrebbe comportato ancora a lungo, nella realtà lavorativa, una non rigorosa distinzione tra le diverse classi di progettisti. Significativa, quindi, la partecipazione di Boffi alla Scuola speciale di architettura, fondata da Boito per l’affinamento professionale post diploma nel ramo dell’architettura “civile”, senza averne tratto, tuttavia, un attestato supplementare utile per l’avanzamento in carriera.

In un quadro ancora confuso sembra di scorgere qualche “suggerimento” da parte di Boito che avrebbe calibrato il percorso migliore di studi sulla base di quella particolare predisposizione al disegno che l’allievo confermò già dal primo, importante mandato: l’imponente restituzione grafica del rilievo di Palazzo Vitelleschi a Corneto Tarquinia. Nel maggio 1875, infatti, Boffi si unì, da Roma, al viaggio d’istruzione organizzato da Boito per alcuni specializzandi milanesi (dall’Istituto Tecnico, come Beltrami e Broggi e dall’accademia, Pio Soli e Luigi Conconi), con visita alla capitale e agli scavi di Tarquinia; come «pensionato dell’Accademia milanese», si trovava in loco da tempo per affrontare il compito assegnato, ricco di fortunati risvolti. Nel 1878 la rivista Ricordi di Architettura ne pubblicava un estratto; nello stesso anno, una menzione all’Esposizione Universale di Parigi, nella classe Dessins et Modèles d’Architecture permetteva di precisare i contorni di una specificità solo italiana in materia di restauro; seguì un premio del Collegio degli Ingegneri e Architetti di Torino. Il ricco apparato iconografico fu raccolto in volume edito da Hoepli nel 1886 in «100 esemplari numerati progressivamente».

Ne emerge un cammino intenso e dall’indirizzo marcato, risolto entro i canoni d’un approccio tradizionale alla cultura di progetto: la nomina a socio onorario dell’Accademia di Brera nel 1884 rappresentò l’esito di sforzi protrattisi in quella direzione per oltre due decenni.

1877. Progetto di concorso per l’Ossario di Custoza

Nel 1877 aderì al bando per l’erezione dell’Ossario di Custoza, il primo impegno di una fase iniziale della carriera rivolta a mettersi in luce in alcuni concorsi a scala nazionale da cui derivò una non disprezzabile risonanza critica. Il progetto fu recepito nelle pagine della rivista Ricordi di Architettura, un’operazione editoriale d’ambito fiorentino rivolta al disegno d’architettura cui Boffi risultò associato dai primi numeri e che largo spazio dedicò, in seguito, alla sua opera.

Due erano i punti salienti richiesti dal comunicato. La prima norma sanciva il carattere «civile», laico e celebrativo del monumento di modo da escludere forme troppo vicine all’architettura religiosa, anche se si doveva includere una cappella ipogea per le funzioni. Conseguentemente, si richiedeva di conferire «proporzioni spigliate» perché il manufatto si elevasse «il più possibile per essere veduto molto di lontano». Il mandato civile fu accolto da buona parte dei partecipanti, tra i primi classificati, come facile richiamo a forme della classicità. Alcuni scelsero il carattere “medievale”, senza distinzione netta tra espressioni dell’architettura civile e religiosa; il progetto vincitore del veronese Giacomo Franco faceva di una moderata veste neoromanica il punto di forza rispetto a queste insicure varianti. Per Boffi si manifestava la possibilità di un’enunciazione sistematica dei principi appresi alla scuola di Boito grazie ai quali dimostrare, pur nella mancata sintesi, una certa sicurezza nell’approccio al dibattuto tema dei monumenti celebrativi.

L’incentivo all’elevazione in verticale fu occasione per innalzare una torre rastremata a pianta ottagonale, una moderna rielaborazione del tiburio delle chiese padane, “lombarde” come conveniva parallelamente la storiografia. L’architetto intese probabilmente far leva sull’emergenza a scala paesaggistica in quanto principio distintivo dell’archetipo di riferimento, elemento predominante nella geografia umana del territorio della pianura. In tal modo era possibile una rilettura in chiave civile della tematica religiosa comune al prototipo e adombrata nel bando; espressione visibile di sforzi e ideali condivisi da una collettività, il tiburio si sarebbe innalzato alla maniera di un segnale cittadino d’alta visibilità, quasi una torre civica, condensando in sé aspetti fondamentali dell’« architettura lombarda » del Trecento, quella stagione che Boito, allora, indicava come modello unico per affrontare i compiti dell’architettura commemorativa nazionale. In continuità culturale, di ideali, ma anche materiale e visiva, il pinnacolo di Custoza doveva svettare ai margini centro orientali dell’area lombarda istituendo un richiamo diretto con i valori della gloriosa stagione comunale, fucina delle peculiarità e della grande civiltà della nazione. La croce alla sommità innestava l’argomento religioso sull’afflato civico generale, proiettando questo lavoro nel cuore della teoria sulle forme della retorica nell’Italia del secondo decennio post-unitario.

Boffi seguì gli insegnamenti con consapevolezza anche sul piano formale. Il montaggio di spezzoni decorativi sul coerente impianto volumetrico proseguiva la strada aperta da Boito verso uno strutturalismo in grado di razionalizzazione il bagaglio stilistico dell’eclettismo. Questo “strutturalismo” fu accolto con energico vigore: nella torre, infatti, era la stessa evidenza conferita alle dinamiche portanti dei singoli elementi (contrafforti angolari sostenuti da colonne, il susseguirsi di gronde e tetti aguzzi sostenuti da mensole etc.), esasperata dal verticalismo, a costituire allo stesso tempo l’ossatura e il volto parlante dell’architettura. In modi ancora ingenuamente esposti, si prefigurava quella tenace ricerca d’intima fusione fra organismo e decoro che caratterizzò tutta la sua opera. Dallo studio attento delle opere di Boito derivarono anche alcuni dettagli, quale l’insistenza sul profilo sfaccettato agli angoli. Inoltre, la predilezione per le ghiere lisce delle arcate e delle monofore, una sorta di riduzione della plastica applicata al piano della parete, fissava un punto di riflessione, filtrato attraverso l’esempio del maestro, attorno ad un aspetto su cui stava lavorando la più avanzata cultura architettonica europea. Il motivo del campo liscio, necessario per conferire risalto alla disposizione degli elementi costruttivi in senso decorativo, suggerì soluzioni nelle più tarde stazioni del Sempione.

1880-1881. Progetto per il monumento delle Cinque Giornate di Milano

La tensione presente nel progetto per Custoza riuscì ridimensionata nel successivo studio presentato per il monumento milanese, sull’onda d’un significativo assestamento di modi e forme nei concorsi che s’infittivano a scala nazionale alla soglia del terzo decennio dopo l’Unità. L’operazione destinata alla celebrazione delle cinque giornate era implicitamente rivolta a riannodare le istanze espresse nei decenni precedenti verso espressioni commemorative di carattere squisitamente ambrosiano, in grado di proporsi come sintesi efficace dell’apporto della città alla stagione risorgimentale italiana. Di contro, le norme del comunicato accordavano largo spazio a sentimenti di retorica, accentuati dalla necessità di ristrutturazione di quell’importante settore della città che il monumento era chiamato ad assolvere: nell’oscillazione continua tra monumento-scultura e opera architettonica (a partire dalle primissime proposizioni del 1860-65), la giunta aveva infine optato, nel bando del 1879, per una nuova “porta urbana”, idea rimasta sostanzialmente invariata in questo secondo concorso del 9 giugno 1881.

La risposta alle due distinte richieste, celebrative e urbanistiche, condusse Boffi, anche in questo caso, alla soluzione d’un alta torre, con debito scoperto verso Luca Beltrami vincitore nella prova del ’79. Come a Custoza, la composizione era rastremata: sopra un possente dato quadrato perforato dall’arco s’innalzava il fusto destinato ad accogliere l’ampio cartiglio con i nomi dei caduti. Alla sommità, un alto basamento gradinato sorreggeva la statua della vittoria alata.

Al confronto con Beltrami e con il precedente studio per Custoza, Boffi abbandonò qui l’idea d’una composizione verticale unitaria sotto il profilo architettonico, grazie alla derivazione da un modello preciso, per inclinare verso una sensibilità plastica e convertire l’architettura al ruolo di supporto per la statuaria. La duplice anima del monumento non fu condensata con coerenza, nel tentativo di adeguarsi all’indole scultorea che, grazie al successo di Giuseppe Grandi già dal primo concorso, s’era profilata come soluzione vincente al problema. La commissione, presieduta da Boito, intese premiare Boffi e altri tre concorrenti per l’idoneità espressa alle norme, di modo da non dover annullare anche questo secondo bando.

1882-86. Progetti per il Vittoriano a Roma e per il Duomo di Milano

Camillo Boito, a capo della giuria della prima selezione per il monumento a Vittorio Emanuele II a Roma, nel 1880, ammetteva: «Chi vorrebbe mai in una città come Roma introdurre i garbi del Medioevo o le novità ingegnose dell’arte infranciosita moderna? Roma è la sola città, dove l’architettura classicamente accademica possa trovare anche al giorno d’oggi un qualche sviluppo» Contemporaneamente, tuttavia, insisteva sui noti modelli del Trecento. Le incerte, ma ogni volta perentorie oscillazioni della critica si costruivano anche e soprattutto grazie ai riscontri con la pratica quanto mai indeterminata che emergeva dai concorsi: il vincitore della prima fase fu riconosciuto nel francese Nétot, mentre lo stesso Boito si trovò a fare i conti con le proposte massicciamente cinquecentiste e farraginose presentate in seconda battuta nel 1882-84.

La presenza del maestro in commissione rappresentò la ragione del buon piazzamento dell’allievo. La giuria promosse il progetto di Boffi tra quelli «degni di più speciale considerazione» accanto ad altri professionisti. Entro questo gruppo selezionato fu scelta poi la terna destinata all’esecuzione: Giuseppe Sacconi, Manfredo Manfredi, Bruno Schmitz. L’architetto si trovò comunque sottoposto all’attenzione pubblica con giudizi in precisa discordanza rispetto al fortunato risultato del concorso. Alfredo Melani, nel 1904, l’indicò come una «delle sue peggiori creazioni». Filippo Guelfi, dalle pagine dell’Italia, accennò subito ai rapporti privilegiati con la commissione: «Intorno al progetto n. 43 […] esprimemmo in succinto il nostro giudizio fino dai numeri scorsi; giudizio che […] in sostanza non cambieremo davvero, sebbene la Commissione abbia dichiarato il progetto stesso meritevole di premio. Il Boffi è artista di molto merito, abilissimo disegnatore, noto anche per essere stato vincitore in altri concorsi. Ma […] ci è sembrato, francamente, molto più fortunato nell’esito, che felice nel concepire». Concludeva: «l’artista ha smarrito la diretta via: e più di lui l’ha smarrita, almeno per un momento che lo ha voluto premiare».

Boffi proponeva una sorta di pianta centrale, non pienamente sviluppata come nel progetto di Manfredi, in cui ampie scalee convergevano al centro ai piedi del basamento della statua equestre del re, punto ottico focale dell’intera costruzione. Sopra la scultura un massiccio pilastro era innalzato a reggere la statua dell’Italia incoronata; ai lati due vaste ali laterali con giganteschi pannelli a bassorilievo, una sorta di piena pagina destinata al canto delle glorie patrie, erano serrate da contrafforti angolari che ripetevano l’elemento centrale.

L’impronta era innegabilmente classicista, anche se nella torre si concentrava un significato del disegno più profondo. Innalzata per intensificare la convergenza di linee sul monumento equestre, come da regolamento, costituiva lo sviluppo d’una personale propensione al verticalismo come risoluzione metaforica adatta alla manifestazione figurata di valori collettivi. Vi ricorse anche nel tardo cimitero di Domodossola e, in parte, nelle stazioni ferroviarie. L’alto pilastro, di gran lunga sopravanzante rispetto all’altezza minima stabilita per il “secondo livello” del manufatto, trovava una giustificazione come fulcro di coni ottici a scala urbana, una sorta di rivisitazione, in uno stile adatto alla retorica nazionale, dell’emblema visivamente preminente nel modello di derivazione comunale: un’evocazione, insomma, della torre civica che era già stata la risposta al tema delle virtù civili sollecitato a Custoza.

Le note “assenze” di memorie municipali di Roma, infatti, aprivano un nuovo capitolo di riflessione attorno al tema dell’identificazione degli ideali della patria nei valori cittadini propri della storia italiana. In questo senso, l’ingrediente verticale costituiva non solo il perno simbolico attorno a cui raccogliere la ritualità legata alle celebrazioni di ideali nazionali; ma anche, allo stesso tempo, ragione per un inserimento integrato del monumento nella realtà fisica della trasformazione della città. Grazie all’istituzione di inedite relazioni urbanistiche e visuali con un contesto urbano fortemente stratificato, la torre avrebbe dovuto elevarsi, come in un’ininterrotta continuità storica, a suggerire il ruolo della capitale come nuovo “municipio” della nazione. I risultati del disegno non si dimostrarono tuttavia all’altezza delle premesse implicite nell’approccio teorico sviluppato a partire dai concorsi precedenti.

La coloritura medievale, non priva di toni allegorici fu comunque accolta dalla critica. Filippo Guelfi l’individuò come il tratto più originale: «Superiormente si eleva una torre che nelle linee di contorno generale, al pari di quelle delle due testate, arieggia il movimento e la gravità dell’arte medievale». Ancora: «La decorazione dei muri di sostruzione della spianata è […] la parte più felice di questo progetto. Si direbbe che l’autore si sia ispirato al gusto di quell’arte gentile, solida e severa ad un tempo, che si ammira in molti monumenti della Toscana».

Le idee maturate nelle prove giovanili aprono a una diversa possibilità di lettura anche per il progetto di facciata del duomo di Milano, presentato in risposta al bando del 1886. Riepilogando la vocazione ad una o più torri campanarie come integrazione indispensabile d’un piano generale ritenuto incompleto (soprattutto ad opera di architetti neoclassici), Boffi avrebbe innestato sulla facciata del Duomo un’altissima guglia che, unitamente al portico ottenuto con l’inserzione di una fronte davanti all’esistente (anch’esso ripresa di propositi a suo tempo sviluppati), doveva intendersi come una torre dal carattere cittadino, destinata a nuovo emblema per la città. L’allegoria sociale trovava corrispondenza nella forma: di fronte alla replica d’un modello preciso, l’architetto ribadiva il diritto all’invenzione che, nella forte evidenza conferita alle masse della composizione, in precisa distanza da soluzioni simili di altri concorrenti, proiettava nell’attualità del presente il senso di un’ennesima rilettura dei significati della cattedrale.

1888-1890. Ville per il lago

Un filo rosso lega le ville sul Verbano e le prove giovanili, apparentemente così distanti negli espedienti formali. Tra i primi esempi villa ‘Serenità’ (Torelli, Zoia), sulle alture di Frino a Ghiffa, scaturì dall’intervento su un edificio esistente con l’incastro di un mastio in continuità col blocco compatto della costruzione e la riforma stilistica di aperture e ornati. Il disegno era ancora sospeso tra la precisazione dell’ispirazione storicista nelle finestre neoromaniche e il proposito di motivi più meditati, quali le colonnine e l’arco ribassato della veranda alla base della torre. L’incertezza nella rielaborazione di temi oramai tradizionali della tipologia di villa (torretta, polifora, verande), imposta dai limiti materiali, induce a ritenere questo lavoro in assenza di altri riscontri uno dei primi di committenza privata, compiuto entro il 1885.

Nelle sale della ‘Serenità’ s’animava un milieu culturale attorno a cui ruotavano i pittori Giovanni Segantini, Ernesto Bazzaro, Conconi, Daniele Ranzoni, Emilio Longoni e gli scultori Giuseppe Grandi e Paolo Troubetzkoy. Proprio la testimonianza di Longoni, che ricorda l’incontro in villa nel 1885-86 con Ranzoni, appare fondamentale per la datazione dell’opera e l’individuazione dell’entourage della committenza entro il quale Boffi mosse i primi passi nella progettazione in campo residenziale.

Nello stesso ’85, infatti, si trovava a Brissago impegnato nel complesso cantiere per la riconversione «a capriccioso e signorile soggiorno» delle omonime isole. La baronessa Saint Léger aveva incaricato l’architetto d’opere per la regolarizzazione del terreno e la riforma del profilo di costa, punteggiato di darsene, terrapieni e terrazze, concentrando nella riforma ambientale ogni velleità di rinnovamento semantico del paesaggio del lago in una riformulazione incurante delle flebili tracce d’antichissimi insediamenti umani. La «casa, modesta e bianca …» risultava defilata rispetto al grande palinsesto, ma adeguata al ruolo di ‘casino’ per piacevoli ricreazioni culturali, senza impegno di sorta. Qui la baronessa chiamò a sé i medesimi artisti di grido per suggellare, con il ritratto, l’avvenuta riforma della natura.

Nel 1888 l’ingegnere, pittore e collezionista Luigi Luvoni pervenne a Stresa su invito di Eugenio Gignous per tentare l’acquisto d’una tra le tante dimore esistenti, ma un incontro con Boffi gli permise di venire a conoscenza di un abbozzo per villino a cui l’architetto stava lavorando con una serie di schizzi oggi posseduti dai proprietari. Vi si appassionò e acquistò un terreno un poco discosto dietro la ferrovia, comunque in buona posizione panoramica sulle isole. Il carattere autoreferenziale dell’impresa e la completa assenza di gradi di vincolo con un contesto ambientale indefinito consentirono a Boffi un approccio pieno al tema della villa, libero di misurare le infinite applicazioni aperte all’invenzione creativa da una tipologia sciolta da vincolanti precetti accademici.

L’edificio presenta una pianta articolata e una volumetria ancora più accentuata grazie alla brillante soluzione della torretta angolare. Questa s’imposta su uno zoccolo ottagonale in corrispondenza di uno spigolo del blocco e s’innalza con un fusto cilindrico, circondato al primo piano da una balconata su mensole e concluso alla sommità da un loggiato a sbalzo che s’avvolge attorno alla struttura, sotto un tetto a cuspide. La massiccia mole del corpo che contiene il portico d’ingresso, allo spigolo opposto, costituisce un tentativo di bilanciare il ritmo verticale impresso alla costruzione. Il vestibolo d’accesso rappresenta la prima dimostrazione d’una tra le trovate meglio riuscite dell’architetto: il portico in angolo è infatti aperto sulle due pareti convergenti con due arcate a tre quarti di cerchio raccordate da una colonnina centrale allo spigolo con capitello a bulbo. Profili a tre quarti di cerchio delineano le sagome della scalinata e del soprastante tendale metallico, anch’essi come stagliati dallo spigolo. Nel complesso, il disegno non pare scaturito dalla sovrapposizione dei diversi piani, ma concepito per volumi giustapposti, con studiato stratagemma nei nodi d’incastro esercitato o per sottrazione (portico d’ingresso) o per accrescimento (torre cilindrica e mastio).

Una doppia energia sembrava percorrere anche quest’opera: trasponendo la teoria di Boito alla pratica, Boffi si destreggiò in un equilibrio instabile tra la possibilità d’una sfrenata enfasi decorativa e la necessità di un controllo razionale sulla costruzione, in una sintesi che, come per il concorso di Roma, non sempre controllava fino in fondo, limite già evidenziato. In questo senso gli esiti migliori dell’educazione alla scuola milanese si rintracciano in quel gioco delle linee di forza a cui è demandato il compito di distribuire la decorazione nell’impianto delle fronti, conferendo particolare risalto all’espressione visibile di forze trattenute. L’arco a tre quarti di cerchio, dal disegno sospeso in una sorta di equilibrio/non equilibrio che consentiva anche il traguardo di un appagamento estetico, rappresentava una vera e propria invenzione personale, anche se scaturiva da un dialogo proficuo con l’unica materia possibile per un “modesto artefice” di fine secolo: «una delle arti dei secoli passati». Gratuito, di contro, è apparso l’apparato esornativo applicato con estro, forse condiviso con Carlo Bugatti, cognato dell’ingegnere Luvoni: gli attici aperti a coda di pavone delle finestre denunciano l’accostamento a forme di derivazione artigianale. La nuova villa si delineava per il proprietario come la proiezione ideale sul lago del salotto che riuniva nella residenza milanese di via S. Barnaba (con Tranquillo Cremona, Ranzoni, Segantini, oltre a Bugatti): l’adornò con quadri e affreschi di sua mano. Boffi vi compariva, ancora una volta, engagé entro i ranghi d’un mecenatismo di livello borghese dalle grandi disponibilità finanziarie, fortemente educato al gusto e particolarmente incline ad accogliere le nuove sperimentazioni in unità indissolubile con le aspirazioni alla celebrazione del proprio stato sociale.

Riscontri documentali hanno permesso di retrocedere la datazione di un’altra dimora, costruita per l’industriale Felix Laforêt e la moglie Luisa sulla costa di Ghiffa, al 1890. Il riferimento alla committenza (il figlio Augusto è, per questioni anagrafiche, escluso dal meccanismo creativo della villa) permette di comprendere il ritorno di Boffi entro i canoni d’uno storicismo più regolato (nei limiti) a costituire un punto focale di trasformazione paesaggistica delle coste del Verbano come platea d’esibizione sociale. Lo schema castellano concedeva risalto al legno e, soprattutto, al cotto, introdotto in contrasto cromatico negli attici delle finestre e nei merli della torre a sottolineare una provenienza stilistica più evidente che nella villa di Stresa e più vicina alla soprastante ‘Serenità’. Tarda, ma non databile, la portineria dov’è visibile la ripresa di temi decorativi presenti in villa Luvoni e in altre opere.

Attraverso l’attenzione per gli effetti cromatici ottenuti contrapponendo alla superficie piana degli intonaci elementi lapidei e laterizi a vista, Boffi perseguì sulla strada d’un estetica intimamente organica alla struttura, con esiti oscillanti. Villa Cattaneo-Gorla, terminata all’Alpino entro il 1892-93, rivelò una sintesi migliore delle sperimentazioni di villa Luvoni, avvalorata dal bianco delle pareti su cui risaltano i ricorsi lapidei e laterizi e i raffinati telai lignei. Villa ‘Ernesta’, costruita a Ghiffa intorno al 1893 per Riccardo Bencetti, «amantissimo dello sport ciclistico e oggi automobilista dei più raffinati», reintrodusse, invece, l’impianto con slanciata torretta, suggerita dalla necessità di catturare la veduta sul lago. Recente è l’individuazione di casa Lessa a Cannobio (1888 ca.), in modi sinceramente castellani (torri cilindriche merlate).

Al di là dei tentativi per un controllo raziocinante, la ridondante sovrastruttura simbolica espressa in queste prove svelava il vero piano sul quale la ricerca portata avanti dell’architetto poteva collimare con le ambivalenti scelte della committenza. Entro i limiti di un conservatorismo di base, infatti, la declinazione di questa “architettura della memoria” in termini estremamente lirici, raffinati, riservati ad un ambito eletto di referenti dimostrava un atteggiamento epidermico rivolto alla costante rilettura critica di tradizioni acquisite che era il tratto distintivo non tanto della committenza, quanto della pratica artistica di quei cenacoli itineranti: proprio nella destrutturazione dei canoni di genere, un esercizio sempre al confine delle convenzioni comunicative consolidate, l’artista poteva trovare ancora la possibilità per una riconferma del proprio posto in una società in incessante mutamento sociale, economico, tecnico.

L’apporto di Boffi, estroso e bizzarro, come è stato scritto, fu ben calibrato nel ruolo di costruttore di enclave stilisticamente appropriate per un ritrovo di studio di artisti inquieti, sospeso nello spazio incantato del lago e nel tempo immobile d’una rivisitazione fantastica della storia (con la sola, significativa defezione di Longoni, oramai orientato verso una personale «iconografia dello sfruttamento della miseria, della lotta delle classi popolari»). Quest’indagine attorno ai nuovi compiti sacrali dell’artista-architetto stabilisce la linea di fondo di tutta l’opera di Boffi, dalla formazione ai concorsi giovanili, all’impegno della maturità nelle stazioni del Sempione. Emblematica, quindi, la lapide apposta nel 1923 sulla facciata di villa ‘Serenità’:

A QUESTA VILLA – IDEATA DALL’ARCHITETTO BOFFI […]

SI VOLLE RELIGIOSAMENTE SERBATA L’ARTISTICA DIGNITÀ,

PERCHE NELLA GLORIA DELLE OPERE E DELLE MEMORIA

LA VIGILASSE PERENNE L’AFFLATO DEGLI SPIRITI SACRI.

Come a chiusura di un capitolo si collocò il disegno per la sede della Cooperativa di consumo nella natia Binago, voluta dalla locale Società Operaia di Mutuo Soccorso nel 1898. La sigla distintiva di Boffi si manifestò, ancora una volta, nella pseudo-torretta innalzata per ritagliare all’edificio un preciso ruolo a scala urbana, sul fondo della strada che attraversa il nucleo del paese. La ghiera attorno alla doppia arcata angolare realizzava una nuova elaborazione della decorazione a coda di pavone di villa Luvoni; se, sul lago, il tema appariva sconnesso rispetto ad un impianto nelle intenzioni coerente, qui risultò meglio inserito grazie alla rivisitazione della disposizione a raggiera degli elementi laterizi nel prototipo “del Trecento”. Ne discese una doppia falcata intercalata da motivi a cerchio, riproposta in seguito nelle finestre della stazione di Domodossola.

I marchi delle dimore private sul lago trovavano per la prima volta applicazione in un edificio pubblico: per sua natura, la sede della cooperativa permetteva di prescindere da preoccupazioni retoriche e, soprattutto, da esegetiche e allegoriche relazioni con la storia, aprendo ad una strada davvero personale nell’approccio al tema dell’edificio a destinazione collettiva di cui beneficiò il cimitero di Domodossola, ultima opera di Boffi (1903).

IL DISEGNO PER LE STAZIONI DEL SEMPIONE

L’ufficio tecnico della Società Strade ferrate del Mediterraneo

Pochi indizi permettono di ricostruire il ruolo di Boffi nella società costruttrice della ferrovia del Sempione. La precisazione del suo contributo in questo campo, tuttavia, consente di delineare i contorni d’una vicenda che si profila come esemplare per comprendere i diversi aspetti che si annodavano, allo scadere del secolo, nell’ideazione delle stazioni, campo d’un azione progettuale multidisciplinare e coordinata che investiva di nuovi significati il ruolo dell’architetto.

Il nome di Boffi comparve nell’organigramma della Società Ferrovie dell’Alta Italia (poi Strade Ferrate del Mediterraneo) dal 1880; vi rimase fino alla morte, con vari trasferimenti entro le divisioni dell’ufficio tecnico.40 Dall’esordio al 1886-87 fu membro della Seconda divisione. Manutenzione e lavori, settore preposto alla gestione e progettazione di interventi sui manufatti ferroviari. Qui si distinse fin dalla prima commessa: la tettoia di Como S. Giovanni, «costrutta nel 1885 […] sotto la direzione dell’ing. Bermani», ornata da «parti decorative, fuse in ghisa, il disegno delle quali è assai appropriato al genere di costruzioni ed al metallo impiegato» del «distinto sig. Boffi». La citazione è eloquente: l’architetto emerge con mansioni di specialista nel disegno decorativo, preludio delle specifiche competenze richieste anche per il Sempione.

Solo nel 1888 risultò tra i disegnatori grazie al passaggio alla Prima divisione, settore Ufficio d’arte. Il trasferimento si rese necessario per la progettazione della «nuova linea di circonvallazione di Milano» a partire dal 1889-90, impegno che richiese a partire dall’annata successiva la creazione di uno sportello ad hoc e un aumento dell’organico. La flessibilità nell’articolazione interna, in virtù d’una razionale suddivisone di competenze tra macrosettori rafforzatasi dopo le Convenzioni del 1885, si confermò strumento utile anche di fronte al complesso piano per il Sempione. Nel 1892 l’ufficio tecnico della compagnia fu nuovamente ristrutturato sotto la guida di due ingegneri in capo: fino al 1894 il «personale qualificato» contava 47 unità, fra cui 16 disegnatori (Boffi) nell’Ufficio d’arte, espropri e catasto.

Più serrato il ritmo dei cambiamenti a partire dal 1896-98. Nel 1897 l’ufficio fu impostato con nuovi criteri; la Direzione generale del Mantenimento e delle Costruzioni presso la Direzione centrale fu posta sotto la direzione dagli ingegneri Oliva e Colombo. Al rinnovamento si affiancò una più consapevole denominazione di sportelli e cariche: l’appellativo di Ufficio d’arte fu soppresso già nel 1896, sostituito con Ufficio espropriazioni e catasto e poi con Progetti e Studi (dal 1897), in concomitanza con una fase progettuale esecutiva della linea del Sempione; alla guida, in luogo del disegnatore capo, furono collocati due ingegneri capo sezione e due capo reparto.

Entro la schiera dei 16 disegnatori è indicativa la precisazione del titolo professionale accanto ad alcuni nominativi: due soli architetti, Boffi e Giovanni Faini, due geometri, Michele Gagliardi e Italo Malagoli. La situazione rimase invariata fino al 1901, quando la nuova denominazione della direzione generale del mantenimento e dei lavori, lo sfoltimento progressivo dell’organico e la soppressione dei disegnatori sembrerebbe indicare un’ulteriore riconfigurazione per far fronte ad un momento operativo di cantiere. La progettazione delle stazioni del Sempione si collocherebbe in anni compresi tra il 1899, per il piano degli scali ferroviari e la messa a punto dei tipi, e il 1901-02 per l’apparato architettonico, lavoro che l’architetto eseguì in coincidenza con il grande cantiere di Domodossola.

I compiti per i quali fu chiamato Luigi Boffi sembrerebbero quindi precisarsi già in base all’attributo professionale espressamente indicato ed al parallelo con la carriera del «professor» Faini, unico a condividere un percorso formativo sotteso all’indicazione della carica. Una rilevante pubblicistica, infatti, individuava in Faini l’autore dei disegni per le stazioni della linea del Gottardo (tronchi Gallarate/Sesto Calende – Pino) con l’importante stazione di Luino, già assunta da Stanislao Fadda a prototipo di media stazione internazionale con doppia dogana.

La vicenda personale di Boffi in questo particolare settore di progettazione sembrò manifestare apertamente tutte le difficoltà d’un progettista d’estrazione accademica nell’ambito di una moderna organizzazione del lavoro; costretto entro una prassi che, grazie all’aggiornamento costante sui “manuali ferroviari” a carattere operativo, derivava il tipo da esigenze pratiche (economiche, tecniche e costruttive) e trovava nella modularità della pianta e degli alzati (e quindi degli elementi decorativi) la risposta per affrontare cantieri necessariamente seriali tra loro, non ebbe forse la possibilità di manifestare compiutamente le proprie qualità, come, con coloritura, commentarono le note biografiche.

Tra altre quella del collega e amico Pietro Ambrogio Lavatelli sostenne con convinzione, forse in base a confidenze, l’attribuzione al «genio » di Boffi dei progetti del «Palazzo sociale» (allora della Mediterranea) con l’architetto Enrico Combi («l’interno però è tutta opera sua»); del non individuato «Palazzo delle Poste alla Stazione centrale ed il padiglione reale» dello stesso scalo milanese; «in Genova, il riordino della Stazione a porta Principe ed il disegno della nuova di Brignole»; il «ponte ferroviario sul Ticino a Vigevano».

L’”estetica delle strade ferrate”

È sintomatico, ancora a fine ‘800, il ricorso da parte della compagnia ferroviaria ad architetti formati in accademia. Il disegno della stazione e di tutti i manufatti accessori sottoposti alla vista pubblica richiedeva uno sforzo decorativo che rientrava in un’ottica dalla simbologia tracciata: la manifestazione delle “magnifiche sorti e progressive” continuava ad essere appannaggio degli accademici.

Sul “volto parlante” dell’architettura ferroviaria, campo d’esercizio privilegiato del disegno architettonico, convergevano però, a cavallo dei due secoli, nuove accezioni nel dibattito; seppur non ancora emancipato da categorie interpretative tradizionali, il discorso procedeva infatti verso una maturazione in grado di mettere a fuoco compiti e caratteristiche specifiche dell’architettura ferroviaria, arrivando a sfiorare problematiche d’impatto paesaggistico fino ad allora pressoché nulle di fronte al mito del progresso incarnato dalla strada ferrata. La concezione stessa della stazione usciva rinvigorita da alcune riflessioni.

Conclusa la disamina delle matrici fissate nella pratica, Stanislao Fadda chiudeva la voce Stazioni, inclusa nel principale manuale ferroviario italiano, con questi appunti: «Per quanto concerne l’architettura non vi è alcuna norma né ragione per fissare piuttosto uno stile che un altro: quindi si fecero edifizi di tutte le forme estetiche adattandole alle particolari esigenze della destinazione di quegli edifizi». Lo «stile francese» era «generalmente adottato per le piccole stazioni», mentre in Svizzera «le stazioni antiche per lo più sono eleganti chalets in legno». L’esigenza di un’estetica appropriata trovava spiegazione col riferimento al caso della Germania: «Qui il sentimento del rispetto che deve aversi per tutto quanto concerne il pubblico servizio è elevatissimo. […] Ciò rilevasi non solo nei grandi edifizi, come scuole, tribunali, musei, teatri, chiese o nelle stazioni di primaria importanza, ma bensì anche nei piccoli edifizi e nelle stazioni d’importanza secondaria. Né solamente nelle costruzioni dei pubblici edifizi, si distingue la Germania come già la Grecia e Roma, ma bensì anche nel rispetto per essi conservandoli con cura religiosa, coadiuvata in ciò da tutto il pubblico, cosa questa che, purtroppo, non può ben dirsi di tutte le altre nazioni europee».

A prescindere da preoccupazioni stilistiche che avevano vincolato l’architettura ferroviaria italiana, la rivisitazione del concetto di ‘decoro’ poteva ancora rappresentare uno strumento valido per il trattamento delle parti comuni in grado di dare rappresentazione ad un nuovo concetto di servizio ferroviario, dalle prestazioni qualitativamente elevate, più vicine alle esigenze dell’utenza, basate sulla diversificazione dell’offerta interna à la gare e su un’immagine complessiva di distinta efficienza. Se il modello francese era rivolto all’abbondanza ornamentale su piani bloccati in pianta, quello tedesco, per aderire liberamente alle esigenze del comfort, era invece più sciolto nell’impaginazione per il ricorso alla distribuzione come tracciato per schemi asimmetrici, meglio adatti alla ripartizione dei servizi e ad ampliamenti nel tempo, indispensabili in una tipologia utilitaristica. Il rimando a un repertorio linguistico flessibile permetteva inoltre di adattarsi al panorama, come nel caso svizzero.

Con lo sguardo rivolto ai fruitori borghesi, la riflessione s’apriva a nuove tematiche. Proprio riguardo alla tettoia disegnata da Boffi, Fadda chiariva: «le parti decorative […] le aggiungono una singolare eleganza, non superflua, se si considera che la stazione di Como è frequentata da grande numero di viaggiatori che visitano il lago, e dalla classe signorile che vi si reca a villeggiare nella stazione estiva e autunnale».

Nell’agosto 1908, al primo convegno dell’Associazione nazionale per i paesaggi e i monumenti pittoreschi d’Italia a Torino, Cesare Barbarava riannodava i fili del dibattito. La nuova «estetica delle strade ferrate», proposta a titolo dell’intervento, muoveva dai casi stranieri di Fadda, dalle fermate della Norvegia «su disegni del Boberg» a quelle del litorale Istriano e della Carniola, a «forma come di villette con vicende di corpi avanzati e di corpi rientranti che conferiscono snellezza di movimenti all’insieme». Di contro in Portogallo, Spagna e Italia le fermate erano «per lo più degli edifici senza carattere a forma di parallelepipedi».

Le conclusioni ribattevano sull’importanza turistica: le «stazioni servono nello stesso modo che un simpatico frontespizio invoglia a sfogliare un album, una buona introduzione a leggere il resto di un libro» in maniera tale da «predisporre il forestiero con una prima buona impressione a visitare la città». Da questi assunti scaturiva il tema dell’inserimento paesaggistico. Per evitare «l’impressione delle monotone e banali architetture» che «sembrano fatte apposta per gettare altrettante note scordate nei più bei paesaggi, per contribuire a farli sembrare prosaici e insignificanti» era d’auspicio «che il Governo e l’amministrazione ferroviaria procurino che i progetti di edifici […] siano compilati tenendo maggior conto delle ragioni dell’estetica e dei paesaggi dove avranno a sorgere» e che «i progetti degli edifici ferroviari siano scelti per ogni linea in base a concorsi ». Il congresso votava le mozioni e inseriva nell’agenda per la catalogazione delle bellezze italiane, scopo dell’associazione, il paragrafo dodici: «punti panoramici o tratti speciali lungo le linee ferroviarie».

Le due posizioni, di Fadda e Barbarava, ricalcavano fedelmente la tesi sostenuta decenni addietro da Camillo Boito che, durante il viaggio in Baviera del 1862 (impressioni raccolte nel 1884 in Gite di un artista), aveva avuto modo di saggiare i vantaggi del modello tedesco: alla luce della naturale aderenza tra distribuzione funzionale e disinvoltura nel trattamento estetico dei fabbricati, Boito, tra i primi, sottopose ad una rilettura critica l’approccio italiano all’architettura ferroviaria con parole che, per le profonde ascendenze boitiane nell’opera di Boffi, vale la pena di riportare per esteso come falsariga per la comprensione dell’approccio relativamente aperto del progettista di Binago alla tematica della stazione. Per Boito, le stazioni tra Linz e Vienna: «Sono edifici vari di forme, quasi campestri nell’aspetto: il legno intagliato e dipinto di allegri colori, l’edera che vi si arrampica su, la pulitezza che s’indovina dall’esterno, le due tinte dei mattoni, l’una rossastra, l’altra biancastra, che formano intrecci e disegni geometrici, tutto ciò alletta gaiamente la vista. Logge, portici, terrazze, torricelle, niente è monotono, niente è monumentale; tutto serve senza pedanteria e senza pretensione, all’uso per l’appunto, né più né meno. O io m’inganno, o […] sono le più gentili stazioni che si possano trovare lungo i binari. Andavo pensando […] alla freddezza uggiosamente e burbanzosamente pitocca delle nostre piccole stazioni italiane, dove quasi sempre manca la bottega da caffè od il ristorante, che nella Germania è invece il luogo principale dell’edificio».

Nella sostanza le categorie interpretative non divergevano dalla fiducia positivista: la problematica paesaggistica trovava risoluzione in un’aggraziata veste per le stazioni come raffigurazione dell’affermazione d’una “civiltà del turismo” diffusa a scala nazionale grazie alla ferrovia, intesa come ulteriore strumento di incivilimento sociale. Le sfumature, tuttavia, permettevano di assegnare nuovamente all’accademico un compito originale per rivestire di significati rinnovati la facciata pubblica dell’architettura ferroviaria.

1898-1904. Le stazioni tra Arona e Iselle

Le fermate delle due tratte principali del Sempione furono concepite secondo differenti varianti modulari: stazioni a quattro luci (Belgirate, Mergozzo, Cuzzago, Beura, Preglia); sei (Meina, Lesa, Baveno, Verbania, Varzo, Iselle); otto (Premosello); dieci luci (Stresa, Arona); il capolinea di Domodossola (23 luci) doveva presentare uno sviluppo più complesso per gli uffici doganali e fornire adeguata importanza allo scalo ferroviario posto sul confine tra le nazioni. Da questo punto di vista il criterio tipologico si accordò alla pratica più diffusa, anche se la consueta combinazione per aggregazioni fu utilizzata per ottenere una varietà maggiore che in casi precedenti. Anche sotto il profilo tipologico, piante ed alzati delle fermate non scaturirono da un particolare approfondimento sul tema. Fu accettata l’abituale separazione tra fabbricato viaggiatori, luogo dei servizi al pubblico e degli sforzi decorativi, e fascio binari, accompagnato dalle pensiline in ferro nelle stazioni maggiori; le planimetrie s’adattarono al modello a blocco rettangolare (allungato per far fronte allo sviluppo dei convogli); la distribuzione interna non subì particolari aggiornamenti rispetto a quella sedimentata nella pratica.

Luigi Boffi onorò il proprio mandato con risposte coerenti con la propria formazione e i compiti prefissati, negli incerti contorni tra architettura e decorazione. Grazie alla predilezione per l’accostamento di materiali tradizionali non ebbe difficoltà a produrre continue diversificazioni decorative pur nella serialità del disegno (e della produzione) degli elementi architettonici. Individuò alcuni caratteri ripetuti in tutti gli edifici: basamento, davanzali e attici delle finestre, cornici marcapiano sagomate a dentelli e cantonali a risega, tutti in differenti graniti locali, distinti sulle superfici intonacate originariamente a tinte chiare.

La reiterazione si prestava a continue variazioni. L’attico delle finestre, con frontone a campo liscio (anche a Binago), assunse un rilievo maggiore nelle stazioni principali (Arona). Lo stesso gioco di ampliamento o contrazione regolava l’articolazione: della cornice marcapiano a dentelli, con il raddoppio della fascia ad Arona e Domodossola; del ricco ‘fregio’ sottogronda, impostato sull’alternanza di cerchi decorativi e mensole di legno; del timpano centrale, rivolto sul piazzale, percorso dall’intreccio della gronda e coronato in principio dal pennone. In versione più semplice, il bordo a dentelli e i cerchi armonizzavano le costruzioni accessorie ai fabbricati principali. Il frontone rappresentava l’essenza dell’elaborazione progettuale. A partire dallo schema a sei luci (non Arona e Domodossola), dove l’elemento assumeva uno sviluppo più marcato, la trama lignea si svolgeva con notevole complessità di disegno, sbalzando dalla superficie della parete con un’intelaiatura aerea, e convergendo al vertice della cimasa in una sagoma a tre quarti di cerchio, la firma dell’architetto.

I limiti del lavoro erano ancora quelli imposti dalla cultura di progetto da oltre un cinquantennio: stabilire una possibilità di variazione entro i limiti di un’immagine unitaria distesa lungo tutta la linea per conferire un carattere distintivo alla compagnia ferroviaria privata.

1901-1904. La monumentale stazione di Domodossola

Lo scalo di Domodossola fu inaugurato il 16 gennaio 1905 con tutta la linea, anche se i lavori si protrassero dopo quella data. La stazione è frutto d’una pagina intensa della vita di Luigi Boffi: si trasferì nella città per seguire il cantiere precisando con accuratezza ogni dettaglio estetico e costruttivo in una mole di elaborati di cui rimane oggi parziale documentazione. L’impegno fu ripagato da alcune commesse parallele e dalla grande attenzione dedicata dalla cronaca locale. Morì prima di poter terminare il lavoro, il 7 giugno 1904.

Per governare la composizione dell’inarticolato parallelepipedo del fabbricato viaggiatori l’architetto ideò uno schema a tre cuspidi, una maggiore al centro, due minori alle estremità; più che un richiamo al precedente scalo (linea da Borgomanero, 1888), la soluzione tratteggiava un’allusione al modello implicito (‘alla francese’, con tre padiglioni) largamente in uso per il trattamento distributivo e architettonico delle stazioni principali. I frontoni e il pesante coronamento di gronda rappresentavano la trasposizione nella pietra dei medesimi dettagli ornamentali lavorati nel legno delle stazioni subordinate. I tre fastigi, infatti, furono sormontati da una torretta coperta a padiglione a sostegno dell’alzabandiera, di modo da assumere il medesimo schema a blocchi assemblati in verticale delle stazioni a sei e otto luci e a Stresa. La cimasa centrale, affiancata da due torrette ridotte in elevazione, ma di identico profilo, era centrata dall’orologio ricavato nella pesante cornice in forte aggetto. Il gioco tra linee curve e rette (nelle torrette, negli attici delle finestre al primo piano, poi fortemente alterate, nei fastigi estremi) proponeva assidue variazioni, in continua allusione a motivi di derivazione storicista.

Laddove, come a Domodossola, le valenze simboliche si facevano più pressanti, l’architetto non esitò dunque a tradurre uno degli elementi a maggior carica innovativa, l’aereo traforo in legno delle stazioni minori, nella pietra. Una solida formazione accademica imponeva un impiego dei materiali tradizionali secondo la gerarchia espressiva derivante dalla natura dei materiali stessi, nell’ambito dell’equivalenza: architettura di pietra uguale architettura monumentale. Allo stesso modo, l’ars combinatoria divulgata da Durand restava la teoria base per la combinazione modulare di elementi ricorrenti introdotti a segnalare la maggiore o minore rilevanza degli edifici pubblici.

Ne derivò, per Boffi, l’accentuazione dello schema tripartito per Domodossola, la stazione principale, e la progressiva diminuzione di segni distintivi in concomitanza con la minore importanza delle stazioni. Ad Arona, seconda fermata della linea, fu conseguentemente introdotto un solo fastigio centrale a denotare la subordinazione di questo scalo alla stazione di confine. Coerentemente cogli assunti, anche ad Arona il fastigio, ad andamento orizzontale, fu riprodotto in muratura, una chiave monumentale che si accordava all’imponente elevazione della fronte nel panorama urbano dovuta al dislivello tra il piano stradale e il fascio binari. Affiancato da due torrette poco slanciate riprendeva in tono minore la medesima impostazione di Domodossola.

Nell’alveo della consuetudine, tuttavia, Boffi risaltò per un esercizio linguistico sottile sempre propenso a trovare una possibilità d’impiego intimamente ribelle, almeno sul piano dell’elaborazione estetica, come nelle ville sul lago. Strano effetto producono, infatti, a Domodossola, i forti aggetti del frontone in pietra, sostenuto su un muro liscio di intonaco chiaro che smaterializza la percezione visiva d’un solido appoggio. Da questa inversione di ruoli tra portante e sostenuto, con effetti di instabilità trattenuta, era scaturito a suo tempo l’espediente dell’arco a tre quarti di cerchio. Allo stesso modo, nelle stazioni secondarie, il compatto cumulo nella gronda di legno (mensole, tralicci, frontone), in forte aggetto sulla facciata, incombe sul caseggiato come un tetto alpino sopra la baita.

Comfort per il viaggiatore borghese

Quest’approccio artigianale entrava in tangenza con le aspirazioni sostenute nella pubblicistica. L’effettiva qualità dimostrata nel disegno d’ogni dettaglio scaturì da un personale adesione al rinnovato concetto di “decoro” come veicolo di un’innovativa accezione del sistema ferroviario; solo grazie al radicamento nel territorio, la ferrovia poteva assumere un ruolo cardine nello sviluppo turistico ed esercitare un’influenza finalmente positiva anche nella riconfigurazione del paesaggio borghese.

La soluzione di maggior efficacia adottata dall’architetto in questo senso era rappresentata senza dubbio dal traforo ligneo a decorazione della cuspide al centro dei fabbricati viaggiatori, un elemento tratto da quello stile alpino che da qualche decennio s’era affermato come soluzione di successo per l’architettura turistica nelle località climatiche (alberghi, funicolari, ville). L’innata simpatia verso l’accento vernacolare trovava appagamento nella categoria del “pittoresco” promossa dall’esercitazione critica sul paesaggio. Più che un omaggio agli aspetti di geografia naturale e umana delle aree attraversate (lago e alpi), com’è stato sottolineato, l’espediente intendeva proporsi come un segnale visivo facilmente decifrabile dall’utenza in immediato rimando alle qualità turistiche delle località: una sorta di richiamo pubblicitario implicito in grado di costituire tassello per una riqualificazione a lungo termine anche per i centri di minore rilevanza, aperti così a luoghi di possibili soggiorni. Era questo il secondo attributo del Sempione, meno evidente e celebrato rispetto al “canto della tecnica” che l’impresa del traforo permetteva d’intonare; fu, però, il veicolo per favolosi piani di “Righi” nostrani sulle montagne ossolane e, qualche anno dopo, per la costruzione della ferrovia panoramica delle Centovalli.

La trasposizione del linguaggio del villino nell’altro campo, prediletto e complementare, dell’architettura dell’era borghese, la stazione, costituì, quindi, l’apporto più originale di Boffi. Il rinvio tra le due tipologie proponeva una soluzione unica al doppio quesito: un’estetica per il turismo, una, interconnessa, per il paesaggio. Divenne una costante simbolica in molti collegamenti secondari su ferro dell’Italia settentrionale nel secondo decennio del ‘900, una rete a forte valenza turistica. Puntuale, quindi, il giudizio di Verbania: «per le nuove costruzioni sorte lungo la ferrovia del Sempione c’è pur stato il tentativo di fare qualcosa di meglio che per il passato, tentativo che se pur non si può dire perfettamente riuscito ha giovato a dar un aspetto più ridente alle stazioni della riviera».

La propensione al verticalismo come segno forte a scala paesaggistica e urbana trovava, infine, un nuovo significato nell’evidenziazione della stazione come strutturazione territoriale ricorrente, ma ad un tempo individuale. La sostenuta variabilità nel decoro concorreva, unitamente all’insinuazione del disegno in ogni particolare a mistificare un’origine artigianale, all’appropriazione dello spazio collettivo come momento di rapporto individuale tra network e utenza.

Su quest’onda Boffi svolgeva la riflessione anche in tema di legami con il contesto urbano: a partire dallo schema a sei luci, il frontone s’innalzava sopra il blocco compatto con una torretta quadrata coperta a falde, cimata dall’alzabandiera. L’orologio delle stazioni più grandi (Stresa, Domodossola, Arona), com’era uso, il lampioncino rivolto al piazzale sotto il fastigio di quelle minori, la monofora neo-romanica in quelle ancora minori, denunciavano un tentativo di circostanziare la stazione nel panorama di città e paesi. Lontano dalla replica di modelli senza variazioni morfologiche, questi piccoli connotati permettevano di qualificare, una ad una, le singole fermate.

Opportunamente rivisitato, l’impianto ideologico alla base dello storicismo medievalistico poteva ancora contribuire, paradossalmente, a cantare le sorti progressive basate sulla tecnica autorizzando risposte formali più adeguate, rispetto a quelle di marca cinquecentista, alla domanda di fruizione, al dialogo con le specificità ambientali, alla rappresentazione del rinnovato volto d’una civilizzazione ferroviaria in atto da mezzo secolo. L’impiego del ferro in funzione espressiva (espulso coscientemente se si considera che ad Arona fanno bella mostra di sé due colonnine interne di pietra e la copertura delle pensiline della stessa stazione è in legno) esulava da questo articolato programma iconografico che muoveva da altri assunti rispetto a molte esperienze coeve, anche dell’incipiente stagione liberty.

Pagina aggiornata il 30/04/2024

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